Con questa mia iniziativa desidero aggregare pensieri e opinioni in merito a temi psicologigi specifici, quali le fobie, la depressione, i comportamenti ossessivi con particolare evidenza rispetto alle balbuzie e tic infantili, nonché altre problematiche umane. Mi interessa altresì riflettere insieme a voi su alcune modalità terapeutiche qui suggerite, alle quali sono appassionato. Buona visione e grazie dei commenti. Giulio Grecchi
venerdì 30 settembre 2011
Giochi innocui e giochi pericolosi
Il pericolo è nel gioco, o nella dichiarazione del gioco? Se ti dico “sto giocando” intendo rassicurarti. Ma se quando tu ti fidi, io ti imbroglio? Se resto dentro le regole del gioco ho vinto. Se esco dalle regole ho imbrogliato. Se hai potere mi sputtani, se non ce l’hai subisci, ma me la farai pagare alla prima occasione.
Se ti aspetti che io faccia sul serio, come in un contratto di affari, o in amore, non accetti che sia un gioco. Ma se non è un gioco, è pericoloso. Sei disposto ad accettarne il pericolo?
Tornando alla classificazione di Caillois, i giochi di competizione, di fortuna, di vertigine, sono tutti più o meno pericolosi. Si rischia di perdere soldi, di perdere la faccia, di perdere la vita. Ma il rischio fa parte di questi giochi. Senza rischio non c’è emozione, l’adrenalina non si mette in moto, il gioco diventa noioso. Anche se non si gioca a soldi, o se nei giochi di vertigine si è assicurati con corde e imbracature solidissime, c’è sempre il rischio psicologico di aver perso contro la sorte, contro la gravità, contro le nostre forze, di constatare che siamo un po’ meno in forma, meno coraggiosi, meno bravi di un compagno.
Il gioco comporta sempre un pericolo, o almeno un rischio? Esiste un gioco in cui non si rischia nulla?
Penso ad un gioco assolutamente innocuo. Esiste? Secondo la classificazione di Caillois in giochi di competizione (lotta, corsa, pugilato, scacchi), di fortuna (scommesse, roulette, lotterie), di simulacro (bambole, giochi di ruolo, teatro), di vertigine (giostra, altalena, valzer, free climbing, acrobazie), mi pare che giochi innocui e del tutto privi di rischi siano da cercare solo fra quelli di simulacro. Tuttavia anche in questo caso i giochi di ruolo e di teatro possono comportare qualche rischio: dimenticarsi la battuta e fare cattiva figura, rompere la bambola, prendere coscienza di un proprio problema vedendolo rappresentato in un gioco di ruolo.
Nel gioco quindi deve succedere sempre qualcosa, altrimenti diventa un rituale ripetitivo e vuoto, come un tic nervoso. Però quello che succede nella maggior parte dei casi non va preso molto sul serio, perché è solo un gioco. Quindi per il fatto stesso che stiamo giocando, dovremmo essere al sicuro da rischi e pericoli.
Tuttavia se non si rischia proprio nulla, “il gioco non vale la candela”. In un gioco in genere si rischia di perdere la posta (quella parte dei miei averi che ho deciso di mettere in gioco) o di perdere la faccia (quella parte di me che ho deciso di mettere in gioco). Se perdo tutti i miei averi o tutta la mia persona non è più un gioco, ma una tragedia.
Gregory Bateson studiò il gioco come applicazione della teoria dei tipi logici di Russel e Withehead ai comportamenti animali e umani. Per Bateson il gioco è un metalinguaggio: i giochi sono qualcosa che "non è quello che sembra"; perché un gioco sia tale ogni giocatore deve poter affermare: "questo è un gioco", cioè ci deve dire che la sua azione è fittizia, che sta giocando “come se” stesse facendo altro.
Un giorno Bateson, nello zoo di S.Francisco, osservò due giovani scimmie che giocavano, cioè erano impegnate in una “sequenza interattiva”, con azioni simili, ma non identiche, a quelle del combattimento.
“Era evidente anche all’osservatore umano che la sequenza non era un combattimento, ed era
evidente che anche per le scimmie che vi partecipavano, questo era “non combattimento”. In altre parole, visto che le scimmie si mordicchiavano senza farsi del male, vuol dire che in qualche modo si erano mandate un messaggio del tipo “questo è un gioco”. L’asserzione “questo è un gioco”, se la si sviluppa, assume la forma: “Le azioni che in questo momento stiamo compiendo non denotano ciò che denoterebbero le azioni per cui esse stanno”.( Bateson,1972 )
Le azioni in cui si impegnano i due animali sono viste come azioni comunicative, anche nel caso che siano azioni propriamente aggressive. Il graffio e il morso non sono considerati come atti di attacco o difesa, ma come atti di relazione tra un animale e l’altro. Nel caso del gioco, i gesti non sono soltanto se stessi, ma dicono qualche altra cosa.
Il gioco, in quanto metamessaggio, dice che le cose che faremo non vanno prese nel significato che normalmente hanno, ma in un altro. Se io dicessi:” vi sto dicendo delle bugie”, per non cadere nel paradosso, l’asserzione “vi dico delle bugie” non deve essere una bugia. “Questo è un gioco” non è un gioco, non fa parte del gioco, ma della relazione. Significa che la relazione che sto intrattenendo con te è un gioco, non è una cosa seria.
Quindi, per giocare, devo mettere in cornice tutta l’azione del gioco (questo è un gioco), devo mettermi fuori dalla cornice per concordare con gli altri che si tratta di un gioco, devo entrare dentro la cornice per giocare, devo uscire per valutare se gli altri stanno giocando o no, devo rientrare per finire il gioco, devo uscire per far capire anche all’altro che il gioco è finito e che ora si passa ad un altro tipo di relazione (questo non è più un gioco), magari per valutare le conseguenze del gioco (vincite e perdite).
Una volta entrati in un gioco, spesso è molto difficile uscirne. Il gioco sembra combinare un alto livello di creatività con un’elevata possibilità di equivoci e di regressione verso uno scambio comunicativo molto più “basso”, aggressivo e ripetitivo. Ecco dunque che un gioco apparentemente innocuo può diventare pericoloso, se almeno uno dei giocatori non capisce che “ogni bel gioco dura poco”.
Quando si gioca dunque, ci si predispone a non essere veramente aggressivi e distruttivi. Gli inglesi hanno il bel termine fair play, gioco leale, pulito, da gentiluomini. Si stabiliscono regole, esplicite o implicite, che ogni giocatore rispetta, per non mettersi fuori gioco. Anche se si corrono rischi o si affrontano pericoli, non sono veri rischi, perché è un gioco.
Se un gioco è veramente pericoloso non lo diciamo, altrimenti ne abbassiamo il livello di pericolosità. Oppure simuliamo pericoli più gravi di quanto non siano, per rendere il gioco più interessante.
Il gioco dunque implica un atteggiamento metacomunicativo (“questo è un gioco”) ma al tempo stesso una comunicazione manipolatoria (“poiché è un gioco, tu sai che non è pericoloso, quindi gioca tranquillo e divertiti”, oppure “il gioco è pericoloso, ma poiché è un gioco tu sai che non si tratta di un vero pericolo”). Però così si cade nel paradosso di Epimenide: “tutti i cretesi mentono, e io sono cretese”. Ciò significa che se tutti i cretesi mentono e io sono cretese, sto mentendo, dunque i cretesi non mentono, ma se non mentono sto dicendo la verità, dunque mentono, e così via in un loop senza fine. Se è un gioco non è pericoloso, se è pericoloso non è un gioco, e così via.
Qualunque gioco può essere rischioso se si vince o si perde, con se stessi o con gli altri, ed è proprio il rischio di perdere che rende attraente il gioco. Se però nel gioco si impegna tutto il proprio essere, non lasciando più nulla al di fuori della sua cornice, il gioco diventa pericoloso. Perché perdere significa perdere se stessi. I ragazzi che si schiantano con le auto dopo la discoteca o nelle gare clandestine non sanno più uscire dal gioco. Ci sono dentro fino al collo, e ci rimettono l’osso del collo.
Il gioco è flessibilità, fluidità, capacità di entrare e uscire dal gioco. Finché c’è gioco non c’è pericolo. Anche il masochista si mette d’accordo con il partner sadico su un segnale di stop, quando non sopporta più il dolore. Se il sadico non rispetta l’accordo, il masochista può morire. Quando non c’è più gioco la situazione si blocca. La cornice diventa una trappola da cui non si esce da soli, perché non si sa più uscire dal gioco che ormai non è più un gioco.
Anche nella vita normale, nelle cose che facciamo sul serio, dobbiamo saperci mettere una componente di gioco. Dobbiamo saper entrare ed uscire. Se insistiamo in un comportamento quando non è più il caso, se tendiamo a ricorrere a soluzioni ridondanti, ci stiamo intrappolando, e sarà piuttosto difficile uscire dal gioco.
E il gioco può diventare pericoloso.
Per la rubrica Manager Ludens un nuovo articolo di Umberto Santucci
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